mercoledì 24 dicembre 2008

Spulciature (1): gli angeli e i vermi

Leggendo qua e là, succede di incappare in strani errori, non errori di stampa o di traduzione, e neppure affermazioni discutibili; ma errori di fatto, che mi paiono sorprendenti per la qualità dei loro autori, spesso illustri studiosi a prima vista incapaci di simili défaillance. Queste "spulciature" sono dedicate a questi errori. Ma credetemi che non è spirito di emulazione: so bene che noi siamo nani sulle spalle di giganti.


Gli angeli e i vermi

Ho letto di recente il saggio di Luigi Luca CAVALLI SFORZA, L'evoluzione della cultura (Torino, Codice edizioni, copyr. 2008, nella collana Paperback; ma la prima edizione è del 2004). Leggo a pag. 6:

Si poteva dubitare che la Terra girasse intorno al Sole e, magari, continuare a credere che la Luna fosse una forma di formaggio con i buchi, come pensava il protagonista di un famoso romanzo storico di Carlo Ginzburg (Ginzburg, 1976), finché non ci si è andati.

Il libro di Carlo Ginzburg, a cui si fa riferimento, è regolarmente riportato nella Bibliografia a pag. 144: "Ginzburg, C. 1976. Il formaggio e i vermi: il cosmo di un mugnaio del '500. Torino: Einaudi." Dal momento che ne sono fresco di lettura, non ho faticato a cogliere l'inesattezza della citazione.

In primo luogo non si tratta di un romanzo storico; e in secondo luogo il protagonista non pensava che la Luna fosse un formaggio coi buchi: il formaggio c'entra, ma la Luna e i buchi no. Strana svista, da ripartire equamente (credo) tra Luigi Luca Cavalli Sforza, autore, e Telmo Pievani e Elisa Faravelli, "che hanno pazientemente rivisto il manoscritto", come riportato nella prefazione.

Il libro di Carlo Ginzburg racconta la storia vera di un mugnaio friuliano, Domenico Scandella detto Menocchio, di cui ricostruisce la vicenda sulla base principalmente delle carte conservate nell'archivio della curia arcivescovile di Udine. Nel 1583 lo Scandella fu denunciato al Sant'Uffizio per affermazioni in odore di eresia. La sua strana cosmogonia è spiegata da lui stesso all'inquisitore nel 1584, durante gli interrogatori nel carcere del Sant'Uffizio di Concordia:

«Io ho detto che, quanto al mio pensier et creder, tutto era un caos, cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume andando così fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel deventorno vermi, et quelli furno li angeli; et la santissima maestà volse che quel fosse Dio et li angeli; et tra quel numero de angeli ve era ancho Dio creato anchora lui da quella massa in quel medesmo tempo, et fu fatto signor con quattro capitani, Lucivello, Michael, Gabriel et Rafael. Qual Lucibello volse farsi signor alla comparation del re, che era la maestà de Dio, et per la sua superbia Iddio commandò che fusse scaciato dal cielo con tutto il suo ordine et la sua compagnia; et questo Dio fece poi Adamo et Eva, et il populo in gran multitudine per impir quelle sedie delli angeli scacciati. La qual multitudine, non facendo li commandamenti de Dio, mandò il suo figliol, il quale li Giudei lo presero, et fu crucifisso». E soggiunse: «Io non ho detto mai che si facesse picar come una bestia» (era una delle accuse che gli erano state rivolte: in seguito ammise che sì, forse poteva aver detto qualcosa del genere). «Ho ben detto che si lassò crucificar, et questo che fu crucifisso era uno delli figlioli de Dio, perché tutti semo fioli de Dio, et di quella istessa natura che fu quel che fu crucifisso; et era homo come nui altri, ma di maggior dignità, come sarebbe dir adesso il papa, il quale è homo come nui, ma di più dignità de nui perché può far; et questo che fu crucifisso nacque de s. Iseppo et de Maria vergine». (p. 8-9)

Come si vede, Menocchio non credeva che la luna fosse di formaggio, ma che gli angeli (e Dio stesso) fossero stati generati dal caos primordiale, come dal formaggio sono generati i vermi.

La sentenza, emessa il 17 maggio 1584, condannò Menocchio all'abiura, a compiere varie penitenze salutari, a portare un "habitello" crociato e al carcere a vita. Dopo quasi due anni la pena fu commutata (per buona condotta): lo Scandella lasciò il carcere di Concordia con l'obbligo di non allontanarsi dal suo villaggio, di confessarsi regolarmente, di non parlare delle sue opinioni eretiche e di portare l'"habitello". Ma non riuscì a stare zitto per troppo tempo e il 12 luglio del 1599 ricomparve in stato d'arresto davanti all'inquisitore a Portogruaro. Il nuovo processo si concluse il 2 agosto: la sentenza lo dichiarò "relapso", cioè ricaduto nell'errore. Venne ancora sottoposto ad altri interrogatori (con tortura) per ottenere i nomi dei complici, senza risultato: in realtà Menocchio non aveva complici, avendo elaborato le proprie teorie in perfetta solitudine.

Nonostante la conclusione del processo, la vicenda di Menocchio non era ancora finita; la parte più straordinaria, in un certo senso, cominciò proprio allora. Vedendo accumularsi per la seconda volta le deposizioni contro Menocchio, l'inquisitore di Aquileia e Concordia aveva scritto a Roma, alla congregazione del Sant'Uffizio, per informarla dell'accaduto. Il 5 giugno 1599 uno dei membri più autorevoli della congregazione, il cardinale di Santa Severina, rispose insistendo perché si arrivasse al più presto alla carcerazione di «quel tale della diocese di Concordia che aveva negata la divinità di Christo signor nostro», «per essere la sua causa gravissima, massime che altre volte è stato condannato per heretico». Ordinava inoltre che si confiscassero i suoi libri e le sue «scritture». La confisca avvenne; si trovarono, come abbiamo visto, anche delle «scritture» - non sappiamo di quale natura. Visto l'interesse di Roma per il caso, l'inquisitore friulano inviò alla congregazione una copia di tre denunce contro Menocchio. Il 14 agosto, nuova lettera del cardinale di Santa Severina: «quel relasso... ne' suoi essamini si scuopre atheista», quindi bisogna procedere «co' debiti termini di giustitia anco per trovare i complici»; la causa è «gravissima», perciò «Vostra Reverentia mandi copia del suo processo o almeno sommario». Il mese successivo arrivò a Roma la notizia che Menocchio era stato condannato a morte; ma la sentenza non era stata ancora eseguita. Probabilmente per un tardivo senso di clemenza l'inquisitore friulano esitava. Il 5 settembre scrisse alla congregazione del Sant'Uffizio una lettera (che non ci è rimasta) per comunicare i suoi dubbi. La risposta spedita il 30 ottobre dal cardinale di Santa Severina, a nome dell'intera congregazione, fu durissima: «le dico per ordine della Santità di Nostro Signore ch'ella non manchi di procedere con quella diligenza che ricerca la gravita della causa, a ciò che non vada impunito de' suoi horrendi et essecrandi eccessi, ma co 'l debito et rigoroso castigo sia essempio agli altri in coteste parti: però non manchi di esseguirlo con ogni sollecitudine et rigore di animo, che così ricerca l'importanza della causa, et è mente espressa di Sua Beatitudine».
Il capo supremo della cattolicità, il papa in persona, Clemente VIII, si chinava verso Menocchio, divenuto membro infetto del corpo di Cristo, per esigere la sua morte. Negli stessi mesi a Roma si andava concludendo il processo contro l'ex frate Giordano Bruno. È una coincidenza che può simboleggiare la duplice battaglia, verso l'alto e verso il basso, condotta dalla gerarchia cattolica in questi anni, per imporre le dottrine approvate dal concilio di Trento. Di qui l'accanimento, altrimenti incomprensibile, contro il vecchio mugnaio. Poco tempo dopo (13 novembre) il cardinale di Santa Severina tornò alla carica: «Non manchi Vostra Reverentia di procedere nella causa di quel contadino della diocese di Concordia, inditiato di haver negata la virginità della beatissima sempre Vergine Maria, la divinità di Christo signor nostro, et la providenza d'Iddio, secondo già le scrissi per ordine espresso di Sua Santità: perché la cognitione di cause di tanta importanza non si può in modo alcuno rivocare in dubbio che sia del Santo Ufficio. Però esseguisca virilmente tutto quello che conviene secondo i termini di giustitia».
Resistere a pressioni così forti era impossibile: e di lì a poco Menocchio fu ucciso. Lo sappiamo con certezza dalla deposizione di un certo Donato Serotino, che il 6 luglio 1601 disse al commissario dell'inquisitore del Friuli di essersi trovato a Pordenone poco dopo che vi era «stato giustitiato per il Santo Officio... il Scandella», e di avervi incontrato un'ostessa da cui aveva saputo che «in detta villa... era un certo huomo che era nominato Marcato, o vero Marco, qual teneva che morto il corpo fusse morta ancho l'anima».
Di Menocchio sappiamo molte cose. Di questo Marcato, o Marco - e di tanti altri come lui, vissuti e morti senza lasciare tracce - non sappiamo niente. (p. 146-148)

Per notizie sul cardinale di Santa Severina, si può consultare, per esempio, questa pagina.

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