sabato 27 dicembre 2008

Giacinto Coldani (1)

L'amica Doretta Vignoli, archivista della basilica di San Giovanni Battista in Melegnano, mi chiede di pubblicare in internet i risultati delle mie ricerche su Giacinto Coldani, il primo storico locale, vissuto nel XVIII secolo. Obbedisco, come disse quel tale; ma premetto che la ricerca è tuttora in corso e i risultati non sono completi.

Per un primo inquadramento partiamo dallo storico Cesare Amelli (1924-2002), che ha trattato del Coldani sia nel Dizionario biografico dei Melegnanesi (1998) sia nella Storia della letteratura melegnanese (2000). Fortunatamente questi testi sono stati pubblicati anche sul web, rispettivamente qui e qui. Ci interessano anche le pagine che nelle stesse opere l'Amelli ha dedicato a Ferdinando Saresani, il secondo storico melegnanese, che nel 1851 si basò sull'opera del Coldani per i propri Cenni storici dell'antico e moderno insigne borgo di Melegnano, stampati postumi nel 1886 (eccole qui e qui).

Avete letto le pagine dell'Amelli? Bene, proseguiamo.

Le notizie biografiche sono piuttosto sommarie e non si capisce quali e quante siano le opere storiografiche scritte dal Coldani. Oltre a un Ragguaglio della chiesa di San Giovanni Battista del borgo di Melegnano, conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, si parla genericamente di manoscritti del 1749 che servirono al Saresani per i suoi Cenni storici del 1851. Evidentemente l'autore non ha fatto ricerche approfondite sul Coldani, cosa del tutto comprensibile in lavori pionieristici che coprono secoli di storia.

Nel preparare la pubblicazione dei manoscritti del Coldani, finora inediti, non potrei accampare per me una tale giustificazione. Ho quindi fatto ricerche nell'Archivio della parrocchia di San Giovanni Battista di Melegnano, nell'Archivio storico della diocesi di Milano e nell'Archivio di Stato di Milano. Altri archivi devono essere consultati (e anche gli archivi già consultati potrebbero riservare ancora qualche sorpresa), ma è già possibile rimpolpare l'Amelli con un bel po' di notizie.


Giacinto Coldani nacque a Melegnano il 16 agosto 1696. Era figlio di Ambrogio e di Domenica Borella. Il battesimo gli fu impartito il giorno successivo dal canonico curato Alessandro Visconti; il padrino fu lo zio paterno Carlo Giuseppe.

Il padre Ambrogio, figlio di Antonio, abitante a Casalmaiocco, si era sposato in prime nozze il 20 gennaio 1693 con Francesca Brazola, abitante a Melegnano, figlia di Matteo Brazzolo e Lucia. Celebrante fu il canonico Baldino Curti e testimoni il canonico don Dionigio Sardi e Gasparo de Massari. Di Ambrogio non ho visto l'atto di battesimo, ma al momento delle nozze doveva essere sui 25 anni. La sposa, chiamata Giacoma Francesca nell'atto di battesimo, era nata il 17 marzo 1670 a Melegnano e aveva quindi quasi 23 anni.

Il 15 marzo 1694 alla coppia nacque un figlio, Antonio Giovanni, ma la madre non sopravvisse. La morte, di cui ignoro la data esatta, probabilmente avvenne fuori Melegnano. Un mese e mezzo dalla morte della moglie, il 4 maggio 1694, Ambrogio si sposò con Domenica Borella nella parrocchia di San Gualtero nei Chiossi di Porta Regale a Lodi, dove la sposa abitava. Era figlia del fu Giacinto e al momento delle nozze doveva avere circa diciotto anni.

Giacinto, secondogenito di Domenica (e terzogenito di Ambrogio), prese dunque il nome dal nonno materno.

In totale, secondo i registri dei battesimi della parrocchia di Melegnano, da Ambrogio e Domenica nacquero nove figli, di cui tre morti in tenera età (una Angela Caterina e due Giovanni Battista):
28-12-1694 Angiola Cattarina
16-8-1696 Giacinto
2-10-1698 Giovanni Battista
24-11-1699 Maria Cattarina
11-11-1701 Angela Francesca
9-12-1703 Impolita Giovanna
4-11-1705 Giovanni Battista
23-10-1707 Giovanni Battista
6-5-1710 Anna Lucia
Gli Stati d'anime conservati nell'archivio della prepositura di Melegnano sono pochi e lacunosi. La famiglia Coldani doveva essere residente nella parrocchia, dal momento che tutti i figli vi figurano battezzati, ma un solo Stato d'anime documenta la presenza della famiglia a Riozzo nel 1708:
Ambrogio Coldano ccc 40
Domenica Jugali ccc 32
Antonio ccc 14
Giacinto cc 12
Maria c 8
Francesca 6
Giovanna 4
Giovanni Battista
Angela Genovese, Servit. 35
(le c credo significhino confessato, comunicato e cresimato)

(continua...)

mercoledì 24 dicembre 2008

Spulciature (1): gli angeli e i vermi

Leggendo qua e là, succede di incappare in strani errori, non errori di stampa o di traduzione, e neppure affermazioni discutibili; ma errori di fatto, che mi paiono sorprendenti per la qualità dei loro autori, spesso illustri studiosi a prima vista incapaci di simili défaillance. Queste "spulciature" sono dedicate a questi errori. Ma credetemi che non è spirito di emulazione: so bene che noi siamo nani sulle spalle di giganti.


Gli angeli e i vermi

Ho letto di recente il saggio di Luigi Luca CAVALLI SFORZA, L'evoluzione della cultura (Torino, Codice edizioni, copyr. 2008, nella collana Paperback; ma la prima edizione è del 2004). Leggo a pag. 6:

Si poteva dubitare che la Terra girasse intorno al Sole e, magari, continuare a credere che la Luna fosse una forma di formaggio con i buchi, come pensava il protagonista di un famoso romanzo storico di Carlo Ginzburg (Ginzburg, 1976), finché non ci si è andati.

Il libro di Carlo Ginzburg, a cui si fa riferimento, è regolarmente riportato nella Bibliografia a pag. 144: "Ginzburg, C. 1976. Il formaggio e i vermi: il cosmo di un mugnaio del '500. Torino: Einaudi." Dal momento che ne sono fresco di lettura, non ho faticato a cogliere l'inesattezza della citazione.

In primo luogo non si tratta di un romanzo storico; e in secondo luogo il protagonista non pensava che la Luna fosse un formaggio coi buchi: il formaggio c'entra, ma la Luna e i buchi no. Strana svista, da ripartire equamente (credo) tra Luigi Luca Cavalli Sforza, autore, e Telmo Pievani e Elisa Faravelli, "che hanno pazientemente rivisto il manoscritto", come riportato nella prefazione.

Il libro di Carlo Ginzburg racconta la storia vera di un mugnaio friuliano, Domenico Scandella detto Menocchio, di cui ricostruisce la vicenda sulla base principalmente delle carte conservate nell'archivio della curia arcivescovile di Udine. Nel 1583 lo Scandella fu denunciato al Sant'Uffizio per affermazioni in odore di eresia. La sua strana cosmogonia è spiegata da lui stesso all'inquisitore nel 1584, durante gli interrogatori nel carcere del Sant'Uffizio di Concordia:

«Io ho detto che, quanto al mio pensier et creder, tutto era un caos, cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume andando così fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel deventorno vermi, et quelli furno li angeli; et la santissima maestà volse che quel fosse Dio et li angeli; et tra quel numero de angeli ve era ancho Dio creato anchora lui da quella massa in quel medesmo tempo, et fu fatto signor con quattro capitani, Lucivello, Michael, Gabriel et Rafael. Qual Lucibello volse farsi signor alla comparation del re, che era la maestà de Dio, et per la sua superbia Iddio commandò che fusse scaciato dal cielo con tutto il suo ordine et la sua compagnia; et questo Dio fece poi Adamo et Eva, et il populo in gran multitudine per impir quelle sedie delli angeli scacciati. La qual multitudine, non facendo li commandamenti de Dio, mandò il suo figliol, il quale li Giudei lo presero, et fu crucifisso». E soggiunse: «Io non ho detto mai che si facesse picar come una bestia» (era una delle accuse che gli erano state rivolte: in seguito ammise che sì, forse poteva aver detto qualcosa del genere). «Ho ben detto che si lassò crucificar, et questo che fu crucifisso era uno delli figlioli de Dio, perché tutti semo fioli de Dio, et di quella istessa natura che fu quel che fu crucifisso; et era homo come nui altri, ma di maggior dignità, come sarebbe dir adesso il papa, il quale è homo come nui, ma di più dignità de nui perché può far; et questo che fu crucifisso nacque de s. Iseppo et de Maria vergine». (p. 8-9)

Come si vede, Menocchio non credeva che la luna fosse di formaggio, ma che gli angeli (e Dio stesso) fossero stati generati dal caos primordiale, come dal formaggio sono generati i vermi.

La sentenza, emessa il 17 maggio 1584, condannò Menocchio all'abiura, a compiere varie penitenze salutari, a portare un "habitello" crociato e al carcere a vita. Dopo quasi due anni la pena fu commutata (per buona condotta): lo Scandella lasciò il carcere di Concordia con l'obbligo di non allontanarsi dal suo villaggio, di confessarsi regolarmente, di non parlare delle sue opinioni eretiche e di portare l'"habitello". Ma non riuscì a stare zitto per troppo tempo e il 12 luglio del 1599 ricomparve in stato d'arresto davanti all'inquisitore a Portogruaro. Il nuovo processo si concluse il 2 agosto: la sentenza lo dichiarò "relapso", cioè ricaduto nell'errore. Venne ancora sottoposto ad altri interrogatori (con tortura) per ottenere i nomi dei complici, senza risultato: in realtà Menocchio non aveva complici, avendo elaborato le proprie teorie in perfetta solitudine.

Nonostante la conclusione del processo, la vicenda di Menocchio non era ancora finita; la parte più straordinaria, in un certo senso, cominciò proprio allora. Vedendo accumularsi per la seconda volta le deposizioni contro Menocchio, l'inquisitore di Aquileia e Concordia aveva scritto a Roma, alla congregazione del Sant'Uffizio, per informarla dell'accaduto. Il 5 giugno 1599 uno dei membri più autorevoli della congregazione, il cardinale di Santa Severina, rispose insistendo perché si arrivasse al più presto alla carcerazione di «quel tale della diocese di Concordia che aveva negata la divinità di Christo signor nostro», «per essere la sua causa gravissima, massime che altre volte è stato condannato per heretico». Ordinava inoltre che si confiscassero i suoi libri e le sue «scritture». La confisca avvenne; si trovarono, come abbiamo visto, anche delle «scritture» - non sappiamo di quale natura. Visto l'interesse di Roma per il caso, l'inquisitore friulano inviò alla congregazione una copia di tre denunce contro Menocchio. Il 14 agosto, nuova lettera del cardinale di Santa Severina: «quel relasso... ne' suoi essamini si scuopre atheista», quindi bisogna procedere «co' debiti termini di giustitia anco per trovare i complici»; la causa è «gravissima», perciò «Vostra Reverentia mandi copia del suo processo o almeno sommario». Il mese successivo arrivò a Roma la notizia che Menocchio era stato condannato a morte; ma la sentenza non era stata ancora eseguita. Probabilmente per un tardivo senso di clemenza l'inquisitore friulano esitava. Il 5 settembre scrisse alla congregazione del Sant'Uffizio una lettera (che non ci è rimasta) per comunicare i suoi dubbi. La risposta spedita il 30 ottobre dal cardinale di Santa Severina, a nome dell'intera congregazione, fu durissima: «le dico per ordine della Santità di Nostro Signore ch'ella non manchi di procedere con quella diligenza che ricerca la gravita della causa, a ciò che non vada impunito de' suoi horrendi et essecrandi eccessi, ma co 'l debito et rigoroso castigo sia essempio agli altri in coteste parti: però non manchi di esseguirlo con ogni sollecitudine et rigore di animo, che così ricerca l'importanza della causa, et è mente espressa di Sua Beatitudine».
Il capo supremo della cattolicità, il papa in persona, Clemente VIII, si chinava verso Menocchio, divenuto membro infetto del corpo di Cristo, per esigere la sua morte. Negli stessi mesi a Roma si andava concludendo il processo contro l'ex frate Giordano Bruno. È una coincidenza che può simboleggiare la duplice battaglia, verso l'alto e verso il basso, condotta dalla gerarchia cattolica in questi anni, per imporre le dottrine approvate dal concilio di Trento. Di qui l'accanimento, altrimenti incomprensibile, contro il vecchio mugnaio. Poco tempo dopo (13 novembre) il cardinale di Santa Severina tornò alla carica: «Non manchi Vostra Reverentia di procedere nella causa di quel contadino della diocese di Concordia, inditiato di haver negata la virginità della beatissima sempre Vergine Maria, la divinità di Christo signor nostro, et la providenza d'Iddio, secondo già le scrissi per ordine espresso di Sua Santità: perché la cognitione di cause di tanta importanza non si può in modo alcuno rivocare in dubbio che sia del Santo Ufficio. Però esseguisca virilmente tutto quello che conviene secondo i termini di giustitia».
Resistere a pressioni così forti era impossibile: e di lì a poco Menocchio fu ucciso. Lo sappiamo con certezza dalla deposizione di un certo Donato Serotino, che il 6 luglio 1601 disse al commissario dell'inquisitore del Friuli di essersi trovato a Pordenone poco dopo che vi era «stato giustitiato per il Santo Officio... il Scandella», e di avervi incontrato un'ostessa da cui aveva saputo che «in detta villa... era un certo huomo che era nominato Marcato, o vero Marco, qual teneva che morto il corpo fusse morta ancho l'anima».
Di Menocchio sappiamo molte cose. Di questo Marcato, o Marco - e di tanti altri come lui, vissuti e morti senza lasciare tracce - non sappiamo niente. (p. 146-148)

Per notizie sul cardinale di Santa Severina, si può consultare, per esempio, questa pagina.

venerdì 19 dicembre 2008

Salve a tutti!

Dopo molte esitazioni, e molte insistenze di mia figlia Roberta, apro anch'io un blog.

Il titolo Melegnano e dintorni indica abbastanza bene gli argomenti che tratterò, in modo più o meno rapsodico (come si addice al medium).

In primo luogo parlerò di Melegnano. Per anni ho fatto ricerche sulla sua storia, soprattutto ecclesiastica, culminate nella mia tesi di laurea Devozione e liturgia a Melegnano nei secoli XV e XVI (la si può leggere e scaricare dal mio sito, quello serio).

I dintorni sono sia reali sia metaforici: divagazioni e scorribande in campi che a volta a volta suscitino il mio interesse.

Spero che quanto scriverò possa piacervi e suscitare i vostri commenti.
Ci sentiamo...